Modelli alimentari e infiammazione cronica di basso grado
I latticini e i prodotti della pesca si comportano in maniera simile agli alimenti di origine vegetale, diminuendo sensibilmente gli indici infiammatori
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In questo numero de Lattendibile esploreremo i rapporti tra dieta (con un occhio di riguardo ai prodotti lattiero caseari), infiammazione e malattie croniche. In questo percorso ci aiuterà un articolo scientifico di recentissima pubblicazione, a forte impronta italiana e più precisamente proveniente dal gruppo dell’endocrinologia dell’Università Federico II di Napoli, guidato dalla Prof. Colao [1], che ha affrontato in maniera molto approfondita e organica questo argomento.
C’è ormai crescente letteratura, dati solidi e consenso scientifico sul fatto che alla base delle numerose patologie croniche caratteristiche del mondo occidentale, come cancro, diabete di tipo 2, malattie neurodegenerative e malattie cardiovascolari, esista una condizione comune: l’infiammazione cronica di basso grado.
L’infiammazione
L’infiammazione è una componente centrale dell’immunità innata (non specifica) e si caratterizza come una risposta adattativa, locale al danno cellulare o tissutale ed è quindi scatenata da stimoli e condizioni nocive, tra le quali tipicamente infezioni o lesioni. Si caratterizza per aumento del flusso sanguigno, dilatazione capillare, infiltrazione di leucociti e produzione localizzata di una serie di mediatori chimici, con lo scopo di avviare l’eliminazione di agenti tossici e la riparazione di tessuto danneggiato [2].
È quindi una reazione più o meno acuta ed “amica” dell’organismo, atta a riparare il danno, rimuovere gli scarti o gli agenti infettivi. Il razionale fisiologico e dell’infiammazione indotta da lesioni o infezioni è chiaro, non abbiamo tuttavia altrettanta chiarezza sull’infiammazione di basso grado, quella che non dà i segnali tipici dell’infiammazione acuta o cronica e che è collegata a (probabilmente prodotta da) stili di vita inadeguati con aumentato rischio, come è stato accennato in apertura, a patologie croniche comprese le malattie cardiovascolari, diabete, alcuni disturbi neurologici (es. depressione e deterioramento cognitivo) e alcuni tumori (es. colon-retto, polmone e cancro alla prostata, tra gli altri) [3-8].
Proprio la scarsa conoscenza dell’argomento è stato il motivo di un simposio che ha avuto luogo a Granada, una decina di anni fa, dal titolo molto significativo: “Low-Grade Inflammation — A High-Grade Challenge” dove si sono discusse le metodologie diagnostiche, i biomarkers e le strategie di risoluzione/prevenzione. Quindi sia la comprensione precisa dei meccanismi e soprattutto l’individuazione di biomarcatori affidabili, sono una sfida cruciale per i prossimi anni.
Ad oggi uno dei biomarkers maggiormente affidabili è la proteina C reattiva (CRP) ad alta sensibilità; la CPR un indicatore generico di infiammazione, in quanto è una proteina della fase acuta particolarmente utile come marcatore di infiammazione a livelli superiori a 10 mg/L. La CRP ad alta sensibilità misura invece piccolissime variazioni a bassi livelli (meno di 1 mg/L) ed è pertanto un buon indicatore di infiammazione a basso grado [9].
Ciò che sappiamo è che la dieta gioca un ruolo chiave nell’infiammazione, poiché i modelli alimentari di tipo mediterraneo, cioè ricchi di alimenti di origine vegetale (frutta, verdura, legumi e cereali integrali), sono associati ad una minore infiammazione sistemica, mentre i modelli occidentali, caratterizzati da un basso consumo di frutta e verdura e da un elevato consumo di grassi saturi e alimenti ipercalorici, sono associati a livelli aumentati di infiammazione.
Anche l’obesità è un determinante importante dell’infiammazione cronica di basso grado: l’energia, quando in eccesso rispetto al fabbisogno, viene immagazzinata negli adipociti, che crescono sia di numero che di volume, determinando il consumo fino all’esaurimento dell’ossigeno disponibile e quindi sofferenza cellulare con reclutamento di cellule pro-infiammatorie, come i macrofagi di tipo M1 [10].
Lo stato di infiammazione di basso grado che si viene a creare può comportare resistenza insulinica, chiudendo di fatto un circolo vizioso che può essere responsabile di ulteriore incremento ponderale, oltre che disturbi metabolici e altre malattie croniche all’insulina portando a un deterioramento del metabolismo e ad un aumento del rischio di altri disturbi non trasmissibili [11].
È un meccanismo di per sé protettivo per la cellula adiposa, che non subirà né gli effetti pro-infiammatori dell’insulina, né l’accumulo di grassi; tuttavia, a subirne le conseguenze sarà l’intero organismo, nel quale si instaurerà una condizione cronica caratterizzata da aumento dell’adiposità centrale, accumulo di grasso intraepatico, infiammazione vascolare e compromissione della funzione endoteliale con danni cardiovascolari, al sistema nervoso centrale e a vari organi e tessuti.
Autore: PROF. ANDREA GHISELLI, Medico Internista, Presidente SISA – Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione
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