Alimentazione: miti da sfatare
Nel campo dell’alimentazione si sente di tutto e il contrario di tutto.
Si dice, per esempio, che il latte intero sia molto calorico ma poi si legge che potrebbe essere d’aiuto nel controllo del peso. Si parla di alimenti “buoni” e “cattivi”, ma si dice anche che non esistano né gli uni né gli altri.
Allora come sapere se i cibi hanno davvero le caratteristiche che vengono loro attribuite? E come capire se una notizia relativa agli alimenti e la nutrizione meriti attenzione? Per orientarsi in questo campo ed avere un’idea almeno indicativa della credibilità di quanto sentiamo è innanzitutto fondamentale conoscere i principi basilari della sana alimentazione. Strumenti come le linee guida dell’INRAN-MIPAF, reperibili presso i relativi siti sono di particolare utilità anche per sgombrare il campo da tanti luoghi comuni e sfatare molti falsi miti. Dalla lettura di documenti come questi si capisce, per esempio, che ciò che rende l’alimentazione equilibrata non è la presenza o l’assenza del singolo alimento, ma l’insieme che ne deriva.
E non si devono quindi dividere gli alimenti in “buoni” o “cattivi”, perché tutto dipende dall’uso che se ne fa. Un altro punto importante riguarda l’attenta lettura delle etichette che dicono quello che c’è da sapere sul prodotto, compreso, seppure non sempre, il contenuto nutrizionale.
Valutare con attenzione l’apporto di energia e nutrienti di un alimento – non soffermandosi soltanto sui valori relativi a 100 grammi ma anche alla reale porzione di consumo – rappresenta un primo passo per poterlo utilizzare bene.
Ed ora, con la nuova normativa , le etichette, come tutti i messaggi che riguardano le virtù nutrizionali degli alimenti o che suggeriscano un legame tra il loro consumo e la salute, dovranno essere ancora più rigorose.
Ma come comportarsi, invece, nei confronti di notizie relative ai risultati di “nuovi studi”, come quelle spesso riportate dai media, e che non di rado sono contraddittori rispetto a quanto detto in precedenza su quell’argomento?
In questo caso, conviene prima di tutto fissare l’attenzione sulla provenienza dello studio: risultati preliminari presentati ad un convegno (e quindi senza revisione) hanno un peso diverso rispetto a studi pubblicati su qualificate riviste scientifiche, che hanno subito una valutazione critica da parte di revisori che ne hanno attestato la correttezza delle procedure e dell’esecuzione.
E’ anche importante leggere bene quanto viene specificato e, in particolare, di che tipo di studi si tratta, come sono stati condotti, su quali soggetti (razza, nazionalità, età), il numero di persone coinvolte: generalmente, più numeroso è il campione, più sono affidabili i risultati.
Bisogna anche ricordare che gli studi clinici riportati dai media non hanno tutti lo stesso livello di precisione, che dipende molto dalla metodologia utilizzata.
Vanno anche esaminati attentamente tutti i dettagli: così, per esempio, alcune notizie sulla pericolosità o sui vantaggi che possono derivare dal consumo di certi alimenti o sostanze, vengono sensibilmente ridimensionati valutandone attentamente le quantità considerate.
Conviene poi avere un atteggiamento critico nei confronti dei consigli estrapolati dai risultati di nuovi studi. Infatti, seppure la scienza dell’alimentazione sia in evoluzione e quindi ci possano essere nuove evidenze che vengono a contraddirne altre precedenti, i consigli su un sano stile di vita (compresa la corretta alimentazione) non possono cambiare da un giorno all’altro.
Essi devono necessariamente basarsi su un numero cospicuo di studi scientifici, ottenuti in modo rigoroso, ripetuti nel tempo su campioni diversi, valutati e discussi da gruppi di esperti appositamente designati.
In sostanza: leggere le notizie ma, per i comportamenti, attenersi alle indicazioni di chi a livello istituzionale ha il compito di valutare le conoscenze e di redigere, e via via aggiornare, le linee guida di riferimento.
Tornando agli studi sui rapporti fra consumo di latte e peso corporeo, cosa si può dire? La risposta nel “commento autorevole” del professor Ferdinando Romano.
Il “commento autorevole”
Ferdinando Romano (Professore Ordinario di Igiene all’Università “La Sapienza” di Roma e Direttore Scientifico dell’Accademia Nazionale di Medicina)
“In questi ultimi anni, da alcuni studi osservazionali è emersa una associazione inversa fra consumo di latte (o apporto di calcio) e peso e/o grasso corporeo.
Tuttavia prima di poter dire che il latte o i prodotti lattiero caseari o il calcio possono davvero esercitare un effetto antiobesità, e che esiste quindi un reale rapporto di causa effetto, è necessario formulare una spiegazione biologica plausibile e poi verificarla.
Al riguardo sono state suggerite alcune interessanti ipotesi (riportate nel seguente approfondimento tratto dal Libro Bianco sul latte e i prodotti lattiero caseari), emerse sia da studi su colture cellulari che da studi di intervento, ma al momento non si è ancora arrivati ad una inequivocabile evidenza scientifica.
Tuttavia, in attesa che la ricerca ci conforti su questi ulteriori effetti benefici associati al consumo di latte, non bisogna dimenticare che il latte, come del resto lo yogurt, è un alimento nutriente, che apporta vitamine, minerali, proteine, zuccheri e grassi; è ricco di acqua, pari a quasi il 90% del suo peso, per cui il suo contenuto calorico, se rapportato alla ricchezza di nutrienti, è relativamente modesto; contiene peptidi bioattivi, cioè sostanze che agiscono positivamente su diverse funzioni biologiche dell’organismo.”
Studi clinici: un po’ di chiarezza
Gli studi clinici sono tutti quelli condotti sull’uomo e possono essere osservazionali e sperimentali (o di intervento).
Gli studi osservazionali si chiamano così perché non vengono effettuati interventi sperimentali sui soggetti in studio, ma si osserva e si registra il corso degli eventi.
Possono essere:
studio caso controllo, nel quale i ricercatori identificano un gruppo di individui con una particolare malattia (detti casi) e lo mettono a confronto con un altro gruppo della stessa popolazione che non presenta quel tipo di malattia (detti controlli). Se un fattore di rischio è associato alla malattia lo si troverà più di frequente tra i casi che tra i controlli. Studio di coorte, nel quale i ricercatori studiano soggetti esposti ad un dato fattore di rischio e li confrontano con soggetti non esposti a quel fattore di rischio. Tutti i soggetti dei due gruppi vengono seguiti nel tempo per rilevare i casi di malattia (o i decessi) che si sviluppano.
Se i due gruppi differiscono solo per la presenza/ assenza dell’esposizione al fattore di rischio, e se la malattia (o il decesso) è più frequente tra i soggetti esposti al fattore di rischio, sarà lecito pensare che sia proprio questo fattore a causare la malattia.
Gli studi sperimentali (di intervento) vengono fatti per verificare se un nuovo farmaco (o trattamento) è efficace.
Il miglior tipo di studio di intervento è quello clinico randomizzato che viene considerato il gold standard degli studi clinici di ricerca. In questo tipo di studio i ricercatori selezionano soggetti affetti dalla malattia contro la quale è stato sviluppato il nuovo farmaco. I soggetti vengono divisi in due gruppi: al primo gruppo viene dato il nuovo farmaco; al secondo gruppo viene data una preparazione che si presenta identica al farmaco (es. compresse uguali per forma, colore e sapore) ma che non contiene il farmaco (chiamata placebo).
Il farmaco risulterà efficace se il gruppo trattato con il farmaco mostra più frequentemente miglioramento o guarigione rispetto al gruppo al quale è stato dato il placebo.
In ordine di attendibilità, la gerarchia è
1) studi di intervento
2) studi di coorte
3) studi caso controllo
Autore: Carla Favaro