Intolleranza al lattosio e malassorbimento: scopri quali sono le differenze e i possibili rischi di una mancata diagnosi.

Il malassorbimento del lattosio è una condizione molto comune nell’uomo adulto (si stima che riguardi circa il 70% della popolazione mondiale)[4] ed è caratterizzata dalla incapacità più o meno marcata dell’orletto a spazzola del piccolo intestino di produrre quantità di lattasi sufficienti a far fronte alla digestione di grandi quantità di lattosio, evento necessario per il suo assorbimento. Non è però da confondere con l’intolleranza al lattosio e latticini.

Differenza tra malassorbimento e intolleranza al lattosio

Dal punto di vista clinico l’ipolattasia indica genericamente che l’attività lattasica dell’orletto a spazzola è solo una piccola frazione del livello infantile e si possono avere due condizioni:

  • Malassorbimento di lattosio, quando una frazione variabile di lattosio non viene assorbito nel piccolo intestino e viene di conseguenza rilasciato nel colon. Poiché il malassorbimento è quasi sempre il risultato di bassi livelli di lattasi, vi è un rapporto quasi uno a uno tra l’ipolattasia e il malassorbimento di lattosio. Tale condizione può essere oggettivamente dimostrata, attraverso la misura della concentrazione di idrogeno nell’aria espirata o di glucosio nel sangue, in seguito a ingestione di un carico di lattosio.
  • Che cos’è l’intolleranza al lattosio? Viene definita come tale quella condizione di malassorbimento che in vario grado produce sintomi (diarrea, dolori addominali, flatulenza, o gonfiore). Questa risposta sintomatica al malassorbimento è legata non solamente alla quantità di lattosio non assorbito (e quindi al grado di ipolattasia), ma anche ad altri fattori, tra i quali spicca l’ingestione di altri alimenti. La diagnosi di intolleranza viene valutata clinicamente sia in maniera empirica con l’eliminazione del lattosio nella dieta sia, in modo più efficace, con test non invasivi tra cui il breath-test o l’analisi genetica.

L’ipolattasia

Il lattosio che permane indigerito nel lume intestinale a causa proprio del malassorbimento può, in alcuni casi, produrre sintomatologia (diarrea, dolori addominali, flatulenza o gonfiore).

Dal punto di vista etiologico la carenza di lattasi o ipolattasia può essere classificata in tre forme: congenita, primaria e secondaria.

  • L’ipolattasia congenita è una condizione rarissima (sono segnalati 40 casi in letteratura), su base autosomica recessiva ed associata alla minima attività lattasica dell’epitelio intestinale. E’ caratterizzata da ritardo di crescita e diarrea fin dalla prima esposizione al latte materno.
  • L’ipolattasia primaria è al contrario la forma più diffusa nella popolazione. È su base ereditaria e rappresenta lo stato ancestrale, mentre due polimorfismi nel gene lattasi (C/T 13910 e G/A 22018), divenuti vantaggiosi dopo l’invenzione dell’agricoltura sono associati con la persistenza della lattasi. L’attività lattasica, massima durante il periodo di allattamento, degrada in epoca successiva fino a raggiungere una quota pari al 5-10% dell’attività iniziale.
  • L’ipolattasia secondaria è una condizione molto spesso transitoria, correlata a perdita di capacità di digerire il lattosio in seguito a compromissione dell’orletto a spazzola, come ad esempio in casi di gastroenterite virale, giardiasi o celiachia.

Nei casi di ipolattasia quindi, la rimozione del lattosio dalla dieta dovrebbe essere considerata esclusivamente in presenza di intolleranza, anche se, come vedremo in seguito, anche in questo caso può non essere necessaria.

Intolleranza al lattosio trascurata: i rischi di una mancata diagnosi

L’approccio terapeutico comune attuale tende ad escludere il latte e derivati dalla dieta anche in assenza di una diagnosi certa di intolleranza al lattosio (lieve o grave che sia) e in molti casi senza nemmeno un motivo di sospetto. Anche per questo motivo, oltre che per il proliferare di siti poco affidabili e test per le intolleranze alimentari fasulli, si sta diffondendo nella popolazione la moda dell’autodiagnosi di intolleranza e della conseguente esclusione dei prodotti lattiero-caseari dalla dieta.

Se un gran numero di individui si ritiene intollerante al lattosio può sorgere un grave problema di salute pubblica poiché queste persone potrebbero, invece, non solo avere persistenza di lattasi – ed eventuali sintomi potrebbero essere riferibili ad altri disturbi intestinali, quali una sindrome dell’intestino irritabile (IBS) – ma potrebbero gestire la loro eventuale intolleranza in molti altri modi che non comportino la rimozione del latte dalla dieta.

Il problema può diventare ancora più grave e coinvolgere più generazioni quando genitori che si ritengono intolleranti, costringono i propri figli a diete senza lattosio (anche in assenza di sintomi), in virtù del convincimento che si debba evitare l’apporto alimentare del latte per ridurre i sintomi di intolleranza.

La rimozione di alimenti lattiero-caseari dalla dieta può comportare gravi svantaggi nutrizionali, primo fra tutti, il più macroscopico, è quello di non permettere un adeguato apporto di calcio e quindi un rischio per osteoporosi e fratture secondarie [1]. Per non parlare dell’apporto di vitamine del latte e suoi derivati, molto importanti per l’organismo.

I livelli di assunzione di riferimento per il calcio nella popolazione adulta sono di 1.000 mg al giorno e 1.300 mg per gli adolescenti [5]. In Italia l’apporto medio di calcio nella popolazione adulta è ben al di sotto dei livelli raccomandati: 799 e 730 mg rispettivamente per adulti maschi e femmine e 892-770 mg per adolescenti maschi e femmine [6]. Questi valori dimostrano un’insufficiente copertura dei fabbisogni di calcio, che risulta inferiore all’80% nell’adulto e addirittura al 60% nelle adolescenti, gruppo particolarmente a rischio oste-oporotico in seguito, in età avanzata [7]. 

intolleranze-alimentari-tabella1

In Italia il consumo di prodotti lattiero-caseari è responsabile di poco più della metà (57%) dell’apporto complessivo di calcio, che deriva soprattutto dai formaggi, mentre solamente il 21% da latte, yogurt e bevande a base di latte [8].

In età adulta i consumatori di latte sono meno dell’80% e chi lo consuma lo fa in una quantità pari a meno di due porzioni al giorno, responsabili di un apporto di calcio inferiore a 270 mg. Le adolescenti ne consumano lievemente di più, superando a stento 300 mg quotidiani di calcio, tuttavia devono trovarne altri 1000 per arrivare alla copertura del fabbisogno. C’è calcio nell’acqua, che però arriva a coprire il 10% del fabbisogno e c’è calcio in molti alimenti vegetali, ma in genere l’assorbimento di quel calcio è molto basso per la presenza di ossalati o fitati. Con gli attuali consumi di vegetali si riesce a coprire solamente l’11% del fabbisogno [8].

Inoltre, molti alimenti vegetali ne contengono percentualmente anche quantità alte, ma l’assorbimento è ostacolato da vari fattori come ossalati e fitati e, se non in alcune eccezioni, è bassissimo. Come risulta in tab 1, occorre un quantitativo elevatissimo, quasi mai raggiungibile, o quanto meno raggiungibile con difficoltà, di alimenti vegetali per eguagliare l’apporto di una tazza di latte, a meno che non si ricorra ad alimenti supplementati (succhi di frutta, tofu ecc) (tab 1).

Bibliografia

4. Savaiano, D.A. and M.D. Levitt, Milk intoler-ance and microbe-containing dairy foods. Jour-nal of dairy science, 1987. 70(2): p. 397-406.

5. DRI, Dietary Reference Intakes for Calcium and Vitamin D, in National Research Council, A.C. Ross, et al., Editors. 2011, The National Academies Press: Washington D.C.

6. Sette, S., et al., The third Italian National Food Consumption Survey, INRAN-SCAI 2005-06–part 1: nutrient intakes in Italy. Nutrition, metabolism, and cardiovascular diseases : NMCD, 2011. 21(12): p. 922-32.

7. Matlik, L., et al., Perceived milk intolerance is related to bone mineral content in 10- to 13-year-old female adolescents. Pediatrics, 2007. 120(3): p. e669-77.

8. Leclercq, C., et al., The Italian National Food Consumption Survey INRAN-SCAI 2005-06: main results in terms of food consumption. Public Health Nutr, 2009. 12(12): p. 2504-32.

Autore: ANDREA GHISELLI